Ci sono culture che non visiti, ma ti attraversano.
Il Giappone è una di queste.
Non assomiglia a nulla di ciò che conosciamo. Non cerca di piacerti, non si spiega, non si traduce. Pretende attenzione.
Chiede lentezza.
Ti obbliga a fermarti e a guardare.
Ed è stato questo il regalo più grande della mostra che abbiamo visitato.
L’arte che nasce dal quotidiano
Davanti alle ceramiche giapponesi abbiamo capito una cosa semplice e spiazzante: per loro la bellezza non è un’aggiunta, è un’abitudine.
Un vaso non deve stupire.
Deve servire.
E servendo, diventa bello.
Una lezione che rovescia il nostro modo di pensare: noi insegniamo ai bambini a “decorare”; il Giappone insegna che ogni gesto quotidiano contiene già la propria estetica.
Le maschere: emozioni scolpite, non nascoste
I bambini si sono fermati davanti alle maschere. Alcune severe, altre buffe, altre spaventose.
Non erano “travestimenti”. Erano caratteri, ruoli, mondi interiori trasformati in materia.
Per un attimo ho pensato che fossero un esercizio di sincerità: dare una forma visibile a ciò che normalmente nascondiamo.
E i bambini, senza sapere nulla, lo hanno sentito. Le guardavano come si guarda qualcuno negli occhi.
Anche il kimono antico, sospeso a mezz’aria, sembrava più un manoscritto che un capo d’abbigliamento. Ogni tratto un ricordo.
Ogni piega una traccia di chi l’ha indossato.
La grande tela calligrafica ha ipnotizzato i bambini. Nessuno di noi sapeva leggere quei segni. Eppure tutti li percepivamo.
È la scrittura che diventa gesto, il gesto che diventa ritmo, il ritmo che diventa meditazione.
In quel momento è stato chiarissimo: non serve capire una lingua per sentirne la verità.
Ci portiamo a casa un altro modo di guardare:
che la semplicità può essere raffinatache gli oggetti hanno una dignità
che le emozioni possono essere scolpite
che la bellezza più potente è quella che non chiede attenzione.