Entrare al MIC di Milano per la mostra dedicata a E.T. è stato, per me, come varcare una porta invisibile tra passato e presente. C’era la me bambina, quella che guardava il film con gli occhi pieni di stupore, e c’era la me di oggi, che vede mio figlio fermarsi incantato davanti agli stessi occhi grandi e lucidi dell’extra-terrestre più famoso della storia.
Non era solo una mostra, ma un viaggio dietro le quinte: bozzetti, modelli in argilla, parti meccaniche, prototipi. Ogni forma raccontava un momento del processo creativo: l’immaginazione che diventa disegno, il disegno che diventa materia, la materia che prende vita. Abbiamo osservato curiosi, quasi increduli: “Quindi E.T. lo hanno… costruito?”.
E' incredibile! A volte i personaggi che ci sembrano reali nascono dalle mani, dai fili, dalla fantasia di qualcuno che ci ha creduto davvero.
Quello che mi ha emozionata di più non è stato solo E.T. in sé, ma il racconto del come è nato. L’idea, i tentativi, le prove, gli errori, fino a quando un pezzo di gomma e ingranaggi è riuscito a far commuovere il mondo. E mentre lo vedevo, mi è tornata alla mente quella frase: “Telefono casa”. Chissà perché, da bambina, mi faceva tremare il cuore.
Uscendo, ho sentito che quel personaggio non appartiene solo a una generazione, ma a chiunque sappia lasciarsi toccare da ciò che è speciale, autentico, imperfetto e profondamente umano.
E.T. non è davvero un alieno. Secondo me è un ricordo, un sentimento, un legame invisibile tra chi eravamo e chi siamo adesso.