La gita era nata per tutt’altro motivo.
Una giornata fuori porta, in Toscana, senza grandi programmi, con il solo desiderio di stare bene e godersi il tempo.
Al ritorno, quasi per caso, una deviazione per il pranzo. Un paese incontrato lungo la strada, il bisogno di fermarsi, e quella sensazione sottile che qualcosa stesse succedendo. Bandiere, colori, persone radunate. Una festa di paese. Di quelle vere.
Abbiamo mangiato lì, tra tavoli all’aperto e voci che si intrecciavano. Poi l’attesa si è spostata verso il campo: costumi storici, cavalli, tamburi. Una rievocazione medievale che, poco a poco, ha preso forma davanti agli occhi.
La gara, una giostra cavalleresca, simile a quelle che ancora oggi si tengono ad Arezzo, è stata un concentrato di tensione ed emozione. Il cavallo lanciato al galoppo, la lancia che cerca il bersaglio, il silenzio prima dell’impatto e poi l’esplosione degli applausi. Un momento sospeso, che non ha bisogno di spiegazioni.
In quell’istante il Medioevo non era più nei libri, né nei racconti. Era lì. Vivo. Concreto. Fatto di gesti precisi, regole antiche, coraggio e concentrazione.
Quello che resta, a distanza di tempo, non è solo l’evento in sé. È l’idea che la storia possa ancora sorprenderci quando smettiamo di cercarla e le permettiamo di farsi incontro. Che l’apprendimento, a volte, passa da una sosta non programmata, da una piazza piena, da un cavallo che corre.
Un pranzo qualunque si è trasformato in memoria.
E il viaggio ha trovato, senza volerlo, un nuovo racconto da portare a casa.
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