A volte mi trovo a osservare scene che sembrano semplici solo in apparenza. Un ragazzo, un computer aperto, un’immagine sullo schermo. E accanto, un foglio bianco che pian piano smette di essere vuoto.
È un dialogo silenzioso, quasi filosofico: il virtuale che offre un riferimento, il reale che pretende un gesto. Da una parte la perfezione immobile di un’immagine digitale, dall’altra l’imperfezione viva della mano che prova, sbaglia, ripassa, insiste.
Ed è lì, in mezzo a questo spazio invisibile, che succede qualcosa di fondamentale.
Lo vedo mentre si avvicina allo schermo per cogliere un dettaglio e subito dopo si piega sul foglio per restituirlo alla sua maniera. Non sta copiando. Sta interpretando. Sta traducendo da un linguaggio a un altro: da pixel a segno, da immagine a significato.
Il virtuale diventa ispirazione, il reale diventa esperienza.
E in questo passaggio avviene un piccolo rito di consapevolezza: il gesto della mano che ricorda che sentire è diverso da guardare, che la memoria profonda nasce quando qualcosa la attraversi anche fisicamente.
È curioso osservare come un occhio disegnato possa trasformarsi in uno specchio: guardando lui disegnare, mi ritrovo a pensare a quanta parte della nostra vita si muova ormai tra queste due dimensioni, lo schermo che mostra e il mondo che invita a toccare.
Forse la verità sta nel ponte che costruiamo ogni volta.
Nel modo in cui scegliamo di abitare entrambi gli spazi senza lasciarci definire da nessuno dei due.
E allora questo semplice esercizio diventa una piccola meditazione sul presente: il digitale che suggerisce, il reale che radica.
Uno sguardo che nasce da un’immagine virtuale… ma che prende vita solo quando trova il coraggio di uscire dalla mano.