Milano, a volte, cambia passo se qualcuno ti invita a rallentare lo sguardo.
Non a guardare di più, ma a guardare meglio.
Questa gita è stata così: un vero safari urbano, guidato da una presenza capace di mescolare ironia, competenza e gioco. Ci siamo mossi tra luoghi famosissimi, quelli che pensiamo di conoscere a memoria, eppure ogni tappa apriva una crepa nelle certezze. Un dettaglio nascosto, una storia laterale, un simbolo che non avevamo mai collegato a nulla.
Camminare è diventato cercare.
Cercare segni sulle mura, forme scolpite, particolari che di solito passano inosservati. Travestiti da cavalieri, armati di curiosità più che di mappe, ci siamo lasciati guidare come in una caccia al tesoro: una fontana che non smette mai di scorrere, il “drago verde” di Milano, non per spreco, ma per mantenere vivi e puliti i suoi canali sotterranei; stemmi che raccontano potere, animali simbolici, storie che si intrecciano tra pietra e acqua.
A un certo punto la città non era più solo sfondo, ma interlocutrice.
Milano parlava attraverso i suoi muri, le sue torri, le sue fontanelle. E bastava poco: una domanda fatta al momento giusto, un invito ad avvicinarsi, a toccare, a immaginare.
C’è qualcosa di molto potente in questo modo di stare nello spazio urbano. Non si tratta di “imparare” nel senso classico, ma di fare esperienza. Di permettere alla meraviglia di entrare senza forzarla. Di lasciare che il gioco apra porte che la spiegazione, da sola, spesso tiene chiuse.