L’arte, a volte, non si lascia solo osservare. Ti viene incontro, ti sfiora, ti ascolta. Ti invita a fermarti, a sentire, a riconoscerti.
Alla Triennale di Milano, con “L’arte è wow”, non abbiamo semplicemente visitato una mostra: abbiamo attraversato emozioni. È stato come entrare in un luogo dove l’arte non è oggetto, ma relazione. Dove non ti chiede di capirla, ma di esserci.
Molte delle opere esposte nascono a Dynamo Camp, un luogo speciale dove bambini e ragazzi con patologie importanti incontrano artisti professionisti e, insieme, creano. Non lavori guidati o ripetitivi, ma opere libere, intense, irripetibili. Arte che non imita, racconta.
C’erano quadri fatti di parole, desideri scritti con un pennarello bianco su sfondi profondi, come se ogni frase fosse un piccolo battito del cuore. Nicolas si è fermato davanti a quel pannello pieno di sogni, e ha iniziato a leggere piano, uno a uno, come fossero segreti. Non sorvolava, non interpretava: ascoltava.
“Vorrei che la mia famiglia stesse sempre bene.”
“Vorrei vivere nel paese degli unicorni.”
“Vorrei diventare pittore.”
“Vorrei avere una vita normale.”
In quel momento non c’era bisogno di spiegare nulla. L’arte parlava da sola, e parlava bene.
Poi il percorso ci ha portati tra installazioni fatte di luce, reti, trasparenze e colori. Forme sospese nell’aria, cactus fatti di fili, meduse leggere, pareti illuminate come sogni in movimento. Nicolas non guardava soltanto: voleva avvicinarsi, toccare, capire com’era fatta. Cercava storie, dettagli, connessioni. Soprattutto, cercava emozioni.
Quando ha incontrato il grande simbolo dell’infinito, pieno di immagini, mani, volti, tracce, segni, si è chinato e l’ha sfiorato con delicatezza. Come si tocca qualcosa che, senza parlare, racconta la vita.
Perché l’arte, quando è vera, non ti chiede di avere tutte le risposte. Ti chiede solo di esserci.
E noi eravamo lì. Con gli occhi. Con la curiosità. Con il cuore.