venerdì 23 febbraio 2024

Davanti a Goya, senza filtri

 

Entrare in una mostra di Goya non è come varcare una soglia qualsiasi.
L’aria cambia subito. I colori si fanno più scuri, i volti più intensi, le scene più dense. È un’arte che non chiede di essere guardata di sfuggita: chiede presenza.



A prima vista potrebbe sembrare una scelta azzardata per dei bambini. Goya non addolcisce, non consola, non semplifica. Racconta l’umano per quello che è: fragile, contraddittorio, a volte violento, a volte tenerissimo.


Eppure, ancora una volta, tutto dipende da come si attraversa un luogo.

Questa visita è stata guidata con una delicatezza rara. Nessuna forzatura, nessuna spiegazione pesante. I quadri sono diventati storie, i personaggi domande, le scene occasioni per osservare senza paura. Anche le opere più dure sono state accompagnate con rispetto, lasciando spazio allo sguardo e al sentire, senza sovraccaricare.



Davanti a certe tele il silenzio si è fatto spontaneo.

Davanti ad altre sono nate domande semplici, dirette, vere.
Non per capire “tutto”, ma per sentire qualcosa.

Goya, visto così, smette di essere “difficile”. Diventa umano.
Diventa un artista che parla di emozioni forti, di scelte, di errori, di luce e ombra — le stesse che abitano anche il presente, solo con nomi diversi.

Osservare un gruppo di bambini davanti a queste opere è stato sorprendente. Nessun rifiuto, nessuna chiusura. Solo attenzione, curiosità, a volte stupore. Come se l’arte, anche quella più complessa, sapesse trovare la strada giusta quando viene proposta con cura.


Uscendo, la sensazione non era quella di aver “fatto una mostra”, ma di aver attraversato qualcosa.

Un tempo lontano eppure vicino.
Un linguaggio antico che continua a parlare, se gli si concede ascolto.

E forse è proprio questo il valore più grande: scoprire che anche l’arte più intensa può diventare accessibile, se accompagnata con rispetto, senza edulcorare ma nemmeno spaventare.

Un altro tassello di questo viaggio fatto di musei, incontri, immagini che restano.
Un promemoria silenzioso: la bellezza non è sempre comoda, ma spesso è proprio lì che vale la pena fermarsi.

venerdì 16 febbraio 2024

Robotland. Un futuro che ci ha già raggiunti

 


Entrare a Robotland è un po’ come varcare una soglia temporale… con la sorpresa di scoprire che dall’altra parte non c’è il futuro, ma qualcosa che, in realtà, è già qui.

Robot che rispondono, che imitano i gesti, che interagiscono con naturalezza. Macchine che non stanno dietro a un vetro, ma chiedono attenzione, dialogo, curiosità. In certi momenti sembrava quasi di assistere a una scena quotidiana di domani — salvo poi rendersi conto che quel “domani” è già parte del nostro presente.

Tra luci, installazioni immersive e robot di ogni forma, la sensazione dominante non era stupore fine a sé stesso, ma una domanda silenziosa che aleggiava nell’aria: quanto siamo già dentro questo cambiamento senza accorgercene?
La tecnologia qui non è raccontata come fantascienza, ma come evoluzione concreta, fatta di tentativi, errori, prototipi e intuizioni che hanno già lasciato il segno.

 

C’era entusiasmo, certo. Mani che volevano toccare, occhi che seguivano ogni movimento meccanico, risate davanti a robot che sembravano quasi “imbarazzati”. Ma anche momenti più quieti, di osservazione, in cui il confine tra umano e artificiale diventava meno netto di quanto ci si aspetterebbe.

Questa mostra, così distante dalle precedenti per tema e atmosfera, ha avuto proprio questo valore: mettere a confronto due estremi del tempo. Da una parte la storia dell’evoluzione, dall’altra una tecnologia che corre veloce, forse più veloce di quanto riusciamo a raccontarla. E in mezzo, lo sguardo di chi cresce dentro tutto questo, con una naturalezza che spesso spiazza noi adulti.


Robotland non dà risposte definitive. Non dice se sia giusto o sbagliato, se sia troppo o troppo poco. Si limita a mostrare, a far vivere l’esperienza. E forse è proprio qui la sua forza: lasciare spazio alle domande, quelle vere, che non hanno bisogno di essere risolte subito.

Si esce con la sensazione di aver fatto un passo avanti… o forse semplicemente di aver preso atto che quel passo lo abbiamo già fatto, senza nemmeno accorgercene.